L’amore che porta all’Amore.
Es 22, 20-26; 1Ts 1, 5c-10; Mt 22, 34-40
Ti amo, Signore, mia forza.
Se dovessimo iniziare con una domanda, certamente potremo chiederci: chi più di Gesù ha amato il Padre «con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22, 37)? Certamente, nessuno più di lui! È evidente, allora, come tutto il testo sia imbevuto di una dimensione cristologica molto forte; Cristo, infatti, è la chiave che apre lo scrigno del Padre e, per il credente che si accosta alla lettura di questa pericope, è chiaro anche come Cristo stesso sia l’incarnazione e la realizzazione delle promesse salvifiche, il punto nodale senza il quale nulla può riuscire.
Gesù rivela all’uomo la sua vocazione: quella ad amare. L’amore, tuttavia, non può essere categorizzato, comandato o imposto per legge; il vangelo pertanto, quando si riferisce a quest’ultimo identificandolo come “comandamento”, certamente intende delineare una normativa, un precetto morale o una prospettiva di vita, ma più di tutto, una possibilità che l’uomo stesso già possiede nel suo intimo. In buona sostanza: “Devi amare perché questo è insito in te!”, “Devi amare perché solo in questo modo potrai realizzarti!”.
L’amore, in aggiunta, si districa tra due punti focali imprescindibili: Dio e il prossimo. Esso non è un’emozione melliflua e sfocata, consta invece di azioni concrete, scelte, predilezioni nette. Per amare Dio è necessario “covare” e rimuovere ogni ostacolo capace di rinnegare la signoria di Dio. A questo punto, tutto ciò, non può far altro che condurre il cristiano a mettere in atto una vera e propria purificazione perpetua. C’è sempre qualcosa o peggio qualcuno che può porsi come diaframma fra il credente e Dio. Tutto ciò significa lottare quotidianamente, “difendersi” mutuando vigilanza e capacità critica e, infine, “attaccare” adottando scelte coraggiose: Dio è vivo e vero, ma è pur vero che gli idoli danno tante comode sicurezze.
L’amore per il prossimo poi, come quello per Dio, richiede scelte concrete, predilezioni e atti degni della propria umanità. «Non molesterai il forestiero» (Es 22, 20) afferma la prima lettura; come si pone allora la coscienza cristiana di fronte alle molte forme di sfruttamento, di repulsione o di emarginazione dello straniero? La Bibbia motiva tale precetto attraverso il far memoria della condizione di esule del popolo stesso in Egitto. Per i cristiani, però, il passato non costituisce il punto d’arrivo, si fa memoria soprattutto del presente che si proietta nel futuro. La precarietà umana nell’arco di questa vita è acclarata; tutti siamo accomunati da una certa e reciproca condizione di “estraneità”, tuttavia, la consapevolezza di essere forestieri in questo mondo si giustifica e si trasfigura nella certezza di essere cittadini del cielo.
È necessario mantenere viva la capacità di indignarsi ogni volta che la dignità altrui viene violata, perseguendo e denunciando ogni sorta di criminalità schiavizzante e sottraendo, infine, ogni forma di sostentamento al malaffare. Solo in questo modo il “precetto” dell’amore potrà rianimare ogni vita e infuocare ogni speranza.
Giuseppe Gravante