Non tornerà a casa se non dopo averlo trovato.
Es 32, 7-11.13-14; 1Tm 1, 12-17; Lc 15, 1-32
Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
La liturgia della Parola di questa XXIV domenica del tempo per annum, ci conduce verso il nucleo fondante della misericordia di Dio, aiutandoci a contemplare la ricchezza del suo perdono e i criteri che promanano da ogni conversione umana. Il Vangelo proposto oggi dalla liturgia, è certamente quello che, più di ogni altro, si veste dei panni della “clemenza” e lascia intravedere il cristianesimo come “religione” del riscatto del peccatore.
Uno e novantanove: uno si perde o costretto a perdersi, gli altri novantanove sono ritenuti giusti o forse, più semplicemente, si percepiscono non bisognosi di perdono. La verità, tuttavia, è che ciò che più conta per Dio, ciò che innanzi ai suoi occhi risulta irrinunciabile: è quell’uno; per quell’uno il Signore si mette in pellegrinaggio, discende dal cielo e va a cercarlo. Non tornerà a casa se non dopo averlo trovato. L’atteggiamento di Dio è l’opposto di quello umano; a volte – anche nella Chiesa Cattolica purtroppo – un cristiano che si perde lungo il cammino rimane un semplice “danno collaterale”, non ci si cura di che fine abbia fatto, non si pensa se questi possa stare bene oppure no. Forse perché già carichi di troppe preoccupazioni, forse per pigrizia, o spesso – come troppi ministri di Dio sono abituati a pensare – “uno in più o uno in meno, che differenza fa: siamo sempre in tanti!”. Ma il Signore è chiaro, non ammette deroghe: non tornerà a casa se non dopo averlo trovato.
Quanto dunque, risulta considerevole la conversione di un uomo! È evidente che, per l’uomo d’oggi, è più facile sentirsi cercatore di Dio che “braccato” da lui. Non è l’uomo che va incontro a lui ma lui che lo attende prima ancora che abbia mosso i suoi passi. Dio, da buon Padre, fa festa per il ritorno del figlio che sembrava essersi perduto e, la parola di Dio, invita a meditare proprio su questo amore viscerale, su questa straordinaria misericordia paterna che assume i connotati della tenerezza materna.
Il Vangelo di Luca apre il capitolo 15 tracciando con precisione la linea d’azione che gli apostoli dovranno tenere con chi abbandona il regno di Dio: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, che fa? Lascia le altre novantanove al sicuro per andare a cercare quella che si è smarrita, e la cerca fin che non l’ha trovata. Quando la trova se la carica sulle spalle, pieno di gioia, e torna a casa. E dice ad amici e vicini: “Fate festa con me!”. Così è anche per il regno di Dio» (Lc 15, 4-6). Gesù sembra prevedere chiaramente nel popolo di Dio due tipi di missionari: quelli che lavorano alle frontiere per estendere il regno e quelli che lavorano all’interno, per recuperare gli smarriti.
La parabola più vicina al cuore dell’uomo è quella del “padre misericordioso”, per tanto tempo chiamata “del figliol prodigo”. Questa si fa narratrice della tenerezza di Dio, il quale aspetta il figlio, giorno dopo giorno, andatosene di casa attirato da un sogno di falsa libertà e di ingannevole felicità. Il figlio fuggito, ridotto alla miseria, è pentito delle sue azioni, ma in maniera equivoca; sembra non amare suo padre, ma il pane di suo padre: per questo ritorna. Il padre tuttavia, da buon padre, non si sofferma a fare calcoli, giudizi di condotta e distinzioni: lo accoglie a braccia aperte. Nell’atteggiamento di questo padre, si nasconde quello di Dio; padre misericordioso orientato solo al nostro bene, pronto a perdonare nonostante tutto.
Oggi il dono del perdono è divenuto segno sacramentale nella Chiesa; sacramento di “difficile” attuazione se nel cuore non si nutre una forte propensione all’amore; una grande capacità di innamorarsi di coloro di cui nessuno si innamora. Un malato non è capace di curarsi da solo, quant’anche questi abbia alle spalle una ricca esperienza di fede; occorre uscire a cercare gli zoppi, perché questi non ce la fanno a camminare verso l’ospedale. Occorre farsi sentire dai ciechi, perché questi non possono vedere il medico. Occorre farsi vedere dai muti, perché questi non possono gridare aiuto. Un uomo non è il suo errore e a cento ne mancherà sempre uno.
Giuseppe Gravante