La «simmetria» dell’amore di Cristo: assoluto, ma non possessivo.
Sap 9, 13-18; Fm 9b-10.12-17; Lc 14, 25-33
La XXIII domenica del tempo per annum ci offre una pagina di vangelo, nella quale Gesù elenca tre condizioni imprescindibili per essere dei veri discepoli e di conseguenza dei cristiani esemplari.
La prima affermazione di Gesù sembra paradossale e cinica, pertanto bisogna intendersi bene sul significato di: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre…» (Lc 14, 26). Nell’aramaico parlato dallo stesso Gesù, queste espressioni intendono perfettamente ciò che lo stesso evangelista Matteo riporta nel parallelo al capitolo 10 del suo Vangelo: «Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me». Parafrasando allora – in termini d’oggi – ciò che il maestro vuole comunicare, si potrebbe affermare che: se qualcuno ha intenzione di seguire Gesù, ma allo stesso tempo non lo ama più del padre e della madre, della moglie e dei figli, dei fratelli e delle sorelle, vale a dire più di quanto ci sia di prezioso in terra e, allo stesso tempo, non si è pronti a far diventare Cristo il bene più prezioso, non si può essere suoi discepoli. Quello di Cristo è un amore esclusivo, ma non possessivo; è un amore “simmetrico”. Così come egli si donò completamente alla croce per aprire l’umanità alla salvezza e trasporre l’amore stesso in una nuove dimensione, quella oblativa; altrettanto noi, focalizzandoci in lui, saremo in grado di donarci perfettamente al prossimo: padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle ecc.. Cristo non ci rapisce, non ci sottrae agli affetti; anzi, è colui attraverso il quale, costoro ne risultano maggiormente valorizzati.
La seconda condizione annunciata da Gesù si snocciola in un semplice assioma: «Chi mi segue senza portare la sua croce, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 27), terminando il suo discorso con un ultimo inciso: «Chi non rinuncia a tutto quel che possiede non può essere mio discepolo» (Lc 14, 33).
Per comprendere queste affermazioni, occorre immaginare il grande entusiasmo della folla radunatasi innanzi a Gesù; egli stesso avverte la necessità di smorzare tale esuberanza, di esprimersi con franchezza e invitare alla cautela. Seguire Gesù significava infatti, rischiare la vita, la casa, farsi odiare – il più delle volte – dalla propria famiglia per i pericoli da intraprendere. Oltre a questo, significava accettare di vivere in maniera nuova, diversa, difficile, contraria alle convinzioni della maggioranza, chiusa pacificamente nel proprio egoismo. Questo nuovo “profeta” esigeva addirittura amore per i nemici e: perdono sempre!
“Rinunciare a tutto” allora, non indicava solo un pacifico distacco dai beni materiali, ma la progressiva rinuncia alle proprie convinzioni e abitudini, per cominciare a pensare e a vivere come lui.
Oggi, inevitabilmente, tale pagina di Vangelo riassume un significato importante anche per noi. Scegliere di essere cristiani è sempre più un onere gravoso, una rottura dolorosa con il contesto socio-culturale in cui siamo immersi; a volte una vera e propria croce da portare. La stessa chiesa, purtroppo, per tanti cristiani, si tramuta in luogo di oppressione e di sofferenza; baratta il suo ventre di madre, alcova di vita, in monte calvario, protuberanza di morte. Il Padre e il Figlio, in una civiltà secolarizzata all’eccesso, sono diventati degli sconosciuti. Dimostrarsi cristiani in certe situazioni diventa difficile.
In questo contesto barbaro e ostinato al cristiano, l’esigenza di lasciarsi abitare dalla Parola dovrebbe far da padrona, far nascere nei cuori il desiderio di un accompagnamento nella vita spirituale; in maniera tale da suscitare il desiderio di scoperta di Dio, provocando una relazione rinnovatrice per la propria vita, specialmente nei momenti bui e di poca chiarezza.
Giuseppe Gravante