Cùpidi nell’arricchirsi di Dio.
Qo 1, 2; 2, 21-23; Col 3, 1-5.9-11; Lc 12, 13-21
Il concetto di ricchezza, nella società odierna, è certamente attuale e variegato. Per molti si connota nell’essere baciati dalla fortuna, per altri nel desiderio di possedere di più o nel preoccuparsi di difendere ciò che già si possiede, per altri ancora nel sogno – ormai irrealizzabile – di trovare un lavoro. Si potrebbero accludere disparati esempi, ma rimane il fatto che per la società occidentale e non, il denaro sembra essere la prima fonte di accesso ad ogni bene, non solo materiale. L’uomo moderno è convinto – e questa convinzione è il risultato di un lungo processo formativo – di poter comprare tutto, oltre che le case, un oggetto o un macchina, anche la salute, il successo e persino gli uomini. La proprietà non è più allora, mezzo materiale di sussistenza e garanzia per la vita, bensì “idolo”, mezzo “autopropositivo” del proprio io da inseguire ad ogni costo. Idolatria è l’avarizia insaziabile (Col 3, 5) di chi si china davanti al benessere e si mette al suo servizio, da schiavo. In un certo senso, la nostra, è una società fondata sul consumismo; il possesso è segno di promozione interiore, di realizzazione personale. Pertanto, l’invito incalzante della Parola di Dio di questa XVIII Domenica del Tempo per annum, è quello di porci nei confronti di noi stessi in atteggiamento critico e disposti ad un confronto franco con la Parola stessa, sollecitandoci ad una presa di coscienza, su quale sia il nostro reale rapporto con la ricchezza.
Nel libro di Qoèlet c’è una progressiva acquisizione di consapevolezza sull’inconsistenza e caducità delle cose umane; il saggio conduce, attraverso un percorso ben preciso, ad esaminare le realtà spirituali, invitando a riconoscere ciò che conta davvero e invitando ad accantonare ogni forma di vanità. Qoèlet cerca un’epifania più alta, una felicità persistente nel tempo: un bene prezioso per il cuore. Pare suggerirci che non può esserci considerazione di ciò che concretamente si possiede se non alla luce della Parola, nella relazione con il Signore. È nella fede allora, che dobbiamo valutare i nostri beni, esaminare il desiderio di ricchezza, soppesare la fatica dei guadagni ottenuti.
Gesù esprime con forza e sapienza questo stesso messaggio; ha sempre insegnato a dubitare della ricchezza. A sottolineare tale modo di pensare, Luca, nel suo Vangelo riporta il racconto di un fatto di cronaca probabilmente verificatosi in quei giorni e lo fa attraverso una parabola. Un ricco possidente agricolo aveva avuto un raccolto eccezionale e aveva tracciato il suo programma di vita con quattro espressioni particolari: “riposati”, “mangia”, “bevi” e “datti alla gioia”. Ma nella notte morì. Gesù concluse il racconto chiamando quel ricco possidente “stolto”, poiché: «Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio» (Lc 12, 21).
Ciò che giudica stolto è il fatto di deporre nelle cose la propria felicità. Non esprime una condanna dei beni in quanto tali, ma dell’averli ridotti alla meta del vivere, scopo per la gioia. In questo senso la ricchezza è idolo, e dunque ci allontana da Dio.
La ricchezza più preziosa dell’oro è la fede, il riconoscere la signoria di Cristo nella propria vita e lasciarsi guidare dal suo annuncio. È nella ricerca delle cose di lassù, come scrive san Paolo (Col 3, 1-3) che si trova il proprio patrimonio. Beato è chi sa riconoscersi povero davanti a Dio, bisognoso del suo aiuto, abbandonato alla sua speranza, fiducioso del suo amore.
Giuseppe Gravante