L’amore di Dio come misura del proprio amore…
Lv 19, 1-2.17-18; 1Cor 3, 16-23; Mt 5, 38-48
Il Signore è buono e grande nell’amore.
Per comprendere a fondo gli insegnamenti di Gesù, inevitabilmente, non basta soltanto porsi all’ascolto delle sue parole; bensì, è necessario compiere un ulteriore passo, un salto di qualità: entrare a contatto con lui e conoscerne la vita. A tal proposito dunque, di fronte alle parole: «Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5, 39), non si può non osservare come il relazionarsi di Gesù con questo “comandamento” corrisponda al suo desiderio di comprensione e di perdono.
Quando Matteo nel suo vangelo narra le percosse ricevute da Gesù durante la sua passione, non menziona alcuna reazione da parte sua. Diversamente, nel racconto giovanneo, Gesù interpella il violento chiedendogli ragione del proprio agire. Il Maestro cita il libro dell’Esodo; il quale, come sappiamo, accoglie nel suo “pensiero” i dettami della “legge del taglione” desunta dal codice di Hammurabi. Essa, modera l’istinto di rivalsa in base a due principi: quello di reciprocità, per cui l’offeso deve appunto rivalersi solo sull’offensore e quello della proporzione fra pena e colpa.
Era pacifico per il popolo eletto applicare tale dettame; tuttavia, Gesù – attraverso il suo «ma io vi dico» (Mt 5, 39) – traccia la via della “non resistenza”; una via da intendersi non come connivenza con il peccato, né come indice di cedimento di fronte all’ingiustizia: ma come strada che ha lo scopo di suscitare nel peccatore l’intima coscienza dell’errore e avviarne il percorso di riconciliazione.
Sulla linea di questo ulteriore passo richiesto da Gesù, si può procedere al punto centrale di tale insegnamento: l’amore verso il nemico. L’amore esteso, illimitato e incondizionato diventa la prassi qualificante della vita cristiana; le parole di Mt 5, 43-44 permettono di apprezzare in tutte le sue dimensioni la novità d’interpretazione della Torah proposta da Gesù e la sua conseguente ricaduta nella prassi quotidiana del cristiano. “Amerai il tuo prossimo” non fa parte dei dieci comandamenti; eppure Gesù non esita a porlo allo stesso livello di questi. “Odierai il tuo nemico” invece, non è un testo biblico, ma probabilmente il frutto di una interpretazione tradizionale che Gesù intende correggere e purificare. Rimaneva però, il problema di identificare chi fosse il proprio prossimo. Nel discorso della montagna Gesù estende la categoria di prossimo fino ad includervi il nemico.
A questo punto, il problema muta in obbiettivo: come posso amare il nemico proprio nel momento in cui mi manifesta tutta la sua ostilità? L’amore, contrariamente a quanto si dice, non è naturale, è frutto di disciplina e autoeducazione: richiede un processo di conversione. La prima tappa allora è di carattere intellettuale: è necessario distinguere fra un uso soggettivo (che è quello che conta) e uno oggettivo della parola nemico. Nessuno mi è nemico (soggettivamente), anche quando mi sia ostile, fino a quando io non me lo rappresento come tale. Mi è certamente avversario, ma non nemico, qualifica che io gli attribuisco.
Durante il processo di conversione, a questa tappa intellettuale ne segue una spirituale. L’esperienza fondamentale della fede per il credente è radicata nella misericordia che Dio ha per lui. Paolo afferma che tutti siamo (oggettivamente) nemici di Dio, nel momento in cui siamo peccatori (Cfr. Rm 5, 8; 10). Da questa esperienza dell’amore ricevuto, che motiva alla conversione, il cristiano rilegge le proprie relazioni.
Accogliere i persecutori nella propria preghiera, significa imparare a vederli con gli occhi di Dio, innalzare lo sguardo oltre la contingenza del conflitto. Si tratta di un passo impegnativo; «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), assumere cioè l’estensione e la gratuità dell’amore divino come misura del proprio amore.
Giuseppe Gravante