Tra le figure di maggior rilievo de “I promessi Sposi”, vi è certamente quella del “padre Cristoforo”, presentato direttamente dal Manzoni nel capitolo IV dell’opera, anche se già se ne fa accenno nel capitolo III. «Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico» (Cap IV) e dal racconto che ne fa l’autore, si sa, come a Lodovico un giorno, accadde un fatto stravolgente che gli cambiò totalmente la vita; tanto da portarlo – appunto – a mutare il nome in Cristoforo.
Mentre camminava in un vicolo, stando alla sua destra il muro, Lodovico vide arrivare un nobile con il quale non aveva mai avuto buoni rapporti. Trovatisi uno di fronte all’altro, entrambi rivendicavano il diritto di precedenza; uno per consuetudine (chi aveva il muro a destra, poteva non scansarsi), l’altro per il suo titolo nobiliare. Non volendo nessuno dei due cedere il passo, si sfidarono a duello. Sappiamo come andò a finire: il nobile ammazzò l’amico di Lodovico – Cristoforo – per poi venire a sua volta sopraffatto e ucciso dall’impeto e dall’orgoglio di Lodovico stesso.
Nel parafrasare tale episodio e nel coglierlo da un’altra angolatura – anche se per via esemplificativa – è paradigmatico il fatto di come esso racchiuda in sé, tutta l’esperienza odierna che ogni singolo individuo vive nelle sue dimensioni relazionali. L’orgoglio, la superbia, la voglia di prevalere sull’altro, soppiantano di frequente la nostra vera identità; diventano corazza e conducono per noi, inutili battaglie, soprintendendo alla quotidiana “uccisione” dell’altro.
Potrebbe certamente essere utile – d’ora in poi – ricordarsi di Lodovico ogni qual volta si cammina su un marciapiedi e magari cedere il passo a chi costeggia il muro da destra, ma la lezione più grande che dovremmo ricavarne, è evidentemente quella sull’umiltà. “Coltivare” l’umiltà, impedisce all’orgoglio e alla superbia di attecchire, di avere una visuale libera e non offuscata, ma soprattutto un panorama chiaro della realtà, tanto da non permettere a motivazioni futili di spadroneggiare e “sconfiggere” il buon senso.
L’umiltà è un dono di Dio. Si ottiene attraverso l’esercizio costante della preghiera e delle opere di carità, il desiderio persistente di riconoscere in Dio, l’unico signore della propria esistenza, colui dal quale partire e al quale ricondurre tutto: ricalibrare il proprio vivere nella missione del Figlio di Dio, nato prima di Pasqua e venuto a radunare i figli dispersi.
L’incontro con il Cristo è di vitale importanza. Privi della grazia di colui, che tutto trasforma dall’interno, è pressoché impossibile mutare atteggiamento e imparare a riconoscere nell’altro le sembianze del fratello. Solo nella dimensione dell’Agàpe: l’Amore più grande e che fu di Cristo crocifisso, è possibile rendere travolgente – e non omicida – un incontro.
Fondamentale dunque, attingere da Gesù, che non lascia a metà il suo programma, ma vi rimane fedele fino alla fine. Il suo volto, è capace di concentrarsi e di amare con straordinaria singolarità, ciascuna persona che incroci il suo sguardo – amica o nemica – sollevandola dal baratro dell’anonimato alla cattedra della notorietà.
Attraverso la predicazione viva di questo vangelo, non di un altro, e Paolo ce lo ricorda: «Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!» (Gal 1,8-9), ogni persona è chiamata a superare se stessa, ad abbattere i limiti dell’orgoglio, della superbia e diventare “buon samaritano”, al fine di rendere la felicità dell’altro il proprio stile di vita.
Giuseppe Gravante