Il coraggio di credere nel futuro…
Gen 12, 1-4a; 2Tm 1, 8b-10; Mt 17, 1-9
Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo
Il Vangelo di Matteo pone all’inizio del racconto della trasfigurazione un’indicazione cronologica: «Sei giorni dopo» (Mt 17, 1). Sei giorni a partire da che evento? Il vangelo non risponde, rimane piuttosto vago.
Gran parte dei biblisti conviene sull’ipotesi che, l’indicazione temporale offerta dal vangelo, sia un’implicita citazione dell’episodio della salita al monte Sinai di Mosè (Cfr. Es 24, 12-18). Dio convoca Mosè sul monte; Mosè sale; il popolo rimane ai piedi del monte; «La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno…» (Es 24, 16). Sei giorni più uno, come sul monte della trasfigurazione!
L’episodio del Sinai è una chiara rivelazione di Dio nonché del suo splendore. Gesù, allo stesso modo, sale sul monte Tabor con tre dei suoi discepoli; si trasfigura davanti a loro manifestando così la gloria del suo splendore divino. Sul Tabor i discepoli sono spettatori e testimoni della rivelazione divina di Gesù finora celata dalla sua umanità.
Gesù, rivelando la propria gloria «sei giorni dopo», dà un senso alla precedente professione di fede di Pietro, la purifica così da ogni residuo di messianismo trionfante. Alla confessione di Cesarea, infatti, segue il primo annuncio della Pasqua di Gesù (Cfr. Mt 16, 21). La fede nel Messia, per essere vera, deve necessariamente inscriversi nel contesto pasquale.
Anche la voce che si ode provenire dalla nube chiarisce ogni possibile fraintendimento sulla figura del Messia (Cfr. Mt 17, 5). In tale ottica allora, si comprende come tutto l’Antico Testamento parli già di Cristo ma, allo stesso tempo, come la fede in lui debba affrontare lo scandalo della passione.
Pietro, sul Tabor, “gustando” lo spettacolo della trasfigurazione, reagisce con entusiasmo; per lui è bello contemplare la gloria di Gesù. Egli cerca allora di prolungare tale godimento; tuttavia, ne rimane quasi interrotto dalla voce del cielo che comanda di non «guardarlo», ma di «ascoltarlo».
Al termine dell’esperienza della trasfigurazione, i discepoli e Gesù fanno ritorno a valle, la valle della quotidianità, il luogo dove l’ascolto trova compimento, dove diviene obbedienza e sequela. Ed è «ascoltatelo» il verbo della nostra vita cristiana, con tutte le esigenze che comporta la radicalità di questo imperativo.
La Parola richiede obbedienza, cioè ascolto consapevole e operativo. L’atteggiamento obbediente già praticato da Abramo: lasciare le sicurezze, la stabilità di vita e mettersi in “pellegrinaggio” con coraggio e fiducia. Probabilmente, oggi, proprio la mancanza di fiducia nel futuro diventa la nostra maggior povertà, il deficit che più di tutto ci abbatte. È necessario allora, per il credente, acquisire la consapevolezza che la storia dell’uomo non è affidata dal caso.
Il tempo della Quaresima diventi allora, il momento opportuno per la sciare che la Parola ci scuota dal torpore, ci sfidi a scommettere e ci provochi ad avere fiducia nel futuro.
Giuseppe Gravante